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PIEDE E PROPRIOCEZIONE

L’adattamento dell’uomo alla postura eretta si è evoluto attraverso millenni ed ogni cambiamento funzionale è stato integrato nello schema motorio passando attraverso generazioni che hanno affilato l’anatomia attraverso l’utilizzo.

Gli arti hanno subito dei cambiamenti: la mano come organo sempre più specializzato alla fine destrezza ed il piede nella sua funzione motoria e di sostenimento del peso corporeo,compito peraltro assolto in modo egregio in relazione alle notevoli potenzialità propriocettive ovvero di grande sensibilità agli stimoli esterni.
Nell’evoluzione dell’essere umano queste peculiarità motorie del piede sono state costantemente migliorate grazie ad un’adattabilità ed una plasticità funzionale sorprendente che si rivela in tutta la sua raffinatezza proprio nel gesto sportivo. Rimane purtroppo una possibilità di esposizione nei confronti di forme patologiche, peraltro giustificate dal carico importante che il piede deve sopportare. Ricordando poi che il contatto con il suolo avviene con una superficie rigida, come frequentemente non era in natura, e che le aspettative di vita dell’uomo moderno sono quasi raddoppiate rispetto a qualche millennio fa, possiamo intuire come il piede vada difeso.

IL PIEDE: ESPRESSIONE DI ESTUALITA’ AMBULATORIA

Il piede si pone come tramite tra il corpo umano e il suolo .
E’ proprio il piede a trasmettere l’energia espressa dal corpo durante la deambulazione e la corsa, ad adattarsi al suolo, a sopportare il peso del corpo e l’energia cinetica che si viene a produrre durante il movimento. Se il cervello è l’organo che inventa la gestualità motoria, il piede la esprime e la trasforma in modo dinamico e, quando per sventura l’individuo non può manifestarsi con il movimento, ne soffre tutto il corpo ed anche il sistema nervoso: l’energia inespressa si accumula in modo negativo.
Il piede e il cammino sono parte della gestualità di ognuno di noi: il piede caratterizza il nostro modo di essere soprattutto quando diamo velocità al nostro movimento durante l’attività sportiva. Il piede svolge una parte importante nell’esecuzione del gesto atletico, nel calcio nella corsa o nel salto: come ultimo anello della catena cinetica dell’arto inferiore dà in termini concreti l’impronta al nostro agire.

PIEDI D’ORO DI BIKILA

Nel settembre del 1960 si svolse la maratona olimpica a Roma, dove un atleta si presentò a piedi scalzi alla riga di partenza. Abebe Bikila passò alla storia dell’atletica per essere stato l’unico uomo a vincere la prova olimipca di maratona a piedi nudi. Questo atleta aveva una sensibilità particolare per i problemi meccanici della corsa; aveva corso quasi sempre scalzo sugli altipiani, imparando così a memorizzare una spinta che nasceva da un piede abituato a lavorare in tutte le sue parti, durante il contatto con il suolo. La scarpa,oltre a limitare la funzionalità articolare, modifica leggermente gli angoli di escursione articolare che ci sono durante l’appoggio e la spinta del piede. L’articolazione della caviglia di questo atleta può essere paragonata ad un giunto di trasmissione, che compie il minor lavoro trasmettendo l’energia senza inutili sprechi: ciò si verifica quando il gesto ricalca un modello ripetuto migliaia di volte.

IL PIEDE NORMALE

Se il Creatore avesse chiesto ad un ingegnere meccanico di progettare un piede, penso che quest’ultimo sarebbe arrivato molto lontano da qualcosa di somigliante alle nostre estremità. Certamente l’ingegnere non si sarebbe preoccupato di avere un sistema così complesso di ossa,muscoli,tendini,articolazioni e legamenti ed avrebbe risolto il tutto molto più semplicemente. Ciò può essere vero, ma questa nostra particolare struttura dà ulteriore spazio alla bellezza ed alla singolarità della natura, che con il passare dei millenni migliora, modifica, rimodella a seconda delle esigenze delle creature che la popolano. Ancora più sbalorditivo è pensare al fatto che nessun piede è esattamente uguale ad un altro, ognuno ha la sua conformazione anche se tutti si somigliano.
Veniamo ora al piede “normale”.
Quando l’ortopedico parla di piede normale si riferisce a qualcosa di differente da quello che la maggior parte delle persone intende: per lui normale è un piede ideale piuttosto che uno ordinario.
Questo piede è quello che trasmette le forze dalla gamba al suolo e viceversa senza arrecare alcuno stress anomalo.

Per questo vorrei illustrare quelli che sono i criteri per far riferimento ad un piede normale: le seguenti relazioni sono particolarmente importanti per chi corre, dato che durante il gesto atletico la meccanica articolare tende all’esasperazione. Pensate a un’autovettura di formula uno nella quale lo sterzo, il cambio, il motore sono sottoposti ad un grande stress e per reggere devono avere una struttura perfetta.
questi criteri rappresentano gli ideali rapporti tra i segmenti ossei del piede e della gamba per l’estrinsecarsi della massima efficienza durante la posizione eretta ed in particolare nella locomozione. Rapporti ideali del genere sono raramente osservati clinicamente e rappresentano più che altro le basi per una valutazione dei gradi di deviazione presenti. Variazioni di poco conto da questi rapporti prefissati possono essere osservate senza alcuna sintomatologia associata. Solo il clinico può stabilire quando l’anormalità è sufficientemente grande da poter portare ad una patologia. Ecco i punti salienti espressi dai disegni a fianco.
a) Il 3° distale della gamba è verticale.
b) Il ginocchio,la caviglia, l’articolazione sottoastragalica giacciono su dei piani trasversi paralleli alla superficie che sostiene il piede.
c) L’articolazione sottoastragalica rimane nella sua posizione neutrale.
d) La bisettrice della superficie posteriore del calcagno è verticale.
e) L’articolazione mediotarsica è ben ferma nella posizione di massima pronazione.
f) Il piano dell’avampiede è parallelo al piano del retropiede ed entrambi sono paralleli alla superficie di sostegno. In questa posizione la bisettrice sagittale della superficie posteriore del calcagno è perpendicolare al piano plantare del piede.
g) Il 2°, il 3° e il 4° metatarso sono in una posizione di totale dorsiflessione e la superficie plantare delle teste dei metatarsi descrive un piano comune parallelo alla superficie portante.
h) Il 1° e il 5° metatarso sono in una posizione tale che la superficie plantare delle loro teste giace nel piano trasverso della 2°, 3° e 4° testa metatarsale.

LA VOLTA PLANTARE

La forma della volta plantare (parte inferiore della figura a) assomiglia a una vela, a un fiocco gonfiato dal vento. Il suo apice è nettamente spostato all’indietro ed il peso del corpo si applica sul suo versante posteriore in un punto (croce nera nella b) posta al centro del collo del piede.
E’ un’architettura complessa che associa in modo armonioso gli elementi osteoarticolari, legamentosi e muscolari del piede. La volta è sostenuta da tre archi e ha tre punti fondamentali di appoggio compresi nella zona di contatto con il suolo. Questi tre punti eminenti di appoggio corrispondono alla testa del 1° metatarso (A), alla testa del 5° metatarso (B) e alla tuberosità posteriore del calcagno (C).
E’ evidente che ogni punto di appoggio è comune a due archi contigui. Quindi, dati i punti A, B e C del triangolo, fra i due punti anteriori A e B è teso l’arco anteriore, che è il più corto ed anche il più basso. Fra i due punti B e C sulla porzione laterale del piede è situato l’arco esterno, di lunghezza ed altezza intermedia. Infine fra i due punti di appoggio mediali C ed A si estende l’arco più importante perchè è quello che detta la trasformazione del piede ed è protagonista sia nella statica sia nella dinamica dell’appoggio.

L’ARCO INTERNO

Le ossa che lo compongono sono:

  •  il 1° metatarso (poggia al suolo con i due sesamoidi)
  • il 1° cuneiforme
  • lo scafoide (è la chiave di volta)
  • l’astragalo (riceve le forze dalla gamba)
  • il calcagno (poggia al suolo con l’estemità postero-inferiore)

I legamenti plantari che tengono uniti i cinque segmenti ossei sono:
– i cuneo-metatarsali, gli scafoido-cuneiformi, il calcaneo-scafoideo inferiore, l’astragalo-calcaneale.

I muscoli più importanti relativi alla funzionalità dell’arco interno sono:
– il tibiale posteriore (richiama lo scafoide in basso ed indietro sotto la testa dell’astragalo);
– il peroneo lungo (agisce sull’arco interno aumentandone la concavità);il flessore proprio dell’alluce che, insieme al flessore comune delle dita,agisce sempre sulla concavità. Il flessore proprrio dell’alluce ci interessa particolarmente perchè regola i rapporti e la funzionalità prono-supinatoria; gioca soprattutto un ruolo stabilizzante tra l’astragalo e il calcagno;
– l’abduttore dell’alluce (aumenta la concavità interna avvicinando le due estremità dell’arco).
N.B. Al contrario l’estensore proprio dell’alluce ed il tibiale anteriore diminuiscono la curvatura e l’appiattiscono.
Vediamo ora le alterazioni morfo-strutturali dell’arco interno.

Il piede piatto

Quando lo scafoide, l’osso che costituisce la chiave di volta dell’arco mediale,è posizionato più in basso rispetto ai fisiologici 15-18 mm, l’arco interno disegna una curva poco accentuata. Nei casi estremi è del tutto assente: in queste situazioni siamo in presenza di un piede piatto.
Funzionalmente il piede piatto può essere indotto da un avampiede varo o da riequilibri di compenso che fanno inclinare il piede verso l’interno. Anche una scadente forza di trazione mediale del muscolo tibiale posteriore può causare un cedimento verso l’interno del piede e favorire nel corso dello sviluppo una alterazione scheletrica evidente.
Nel piede piatto la superficie di appoggio aumenta in particolare nella porzione mediale: se questa area disegna una convessità mediale siamo in presenza di un cosiddetto piede piatto di terzo grado.
Il piede piatto è spesso doloroso e può condizionare le attività sportive che prevedono la corsa.

Il piede piatto può causare:
dolore articolare a livello dell’articolazione tibio-tarsica in relazione ad una alterata distribuzione del carico articolare e ad uno stress legamentoso;
stresso a livello della fascia plantare ed una possibile reazione fibrotica della stessa che si manifesta nel tempo;

  • un carico eccessivo in corrispondenza della prima e della seconda testa metatarsale. Nel primo caso possiamo avere una situazione infiammatoria relativa ai sesamoidi, nel secondo una classica metatarsalgia;
  • sindrome da conflitto peroneo-astragalica.

Il piede cavo

Nel piede cavo,la chiave di volta dell’arco interno, lo scafoide, che dovrebbe essere posizionato a 15/18 mm, è posizionato più in alto e le forze che agiscono su di esso, in particolare la trazione esercitata dal muscolo tibiale posteriore, sono da considerarsi eccessive rispetto alla normalità.
Questa situazione anatomica fa sì che l’area di appoggio del piede sia concentrata nella parte anteriore e nel retropiede mentre al livello del mesopiede non vi è alcun contatto.
La conseguenza diretta più importante è un sovraccarico dell’avampiede e del retropiede dove sono concentrate le forze.
L’alterazione della morfologia del piede può essere dovuta a squilibri della muscolatura estrinseca del piede deputata alla sua stabilità spesso associati ad alterazioni di carattere neurologico.

Effetti del piede cavo
Il piede cavo può essere associato o comunque può essere un fattore favorente di una serie di patologia carattere involutivo dello stesso piede che così riassumiamo in breve:

  • metatarsalgie dell’avampiede con possibili callosità associate;
  • nevralgie interdigitali con possibili formazioni di neurinomi;
  • griffe delle dita con possibile evoluzione in dita a martello allorquando si ingenera un’anchilosi articolare;
  •  fasciti plantari, entesopatie della fascia plantare con la possibile associazione di spine calcaneari;
  • instabilità dell’articolazione tibio-tarsica negli esiti di distorsioni ricorrenti;
    sindromi artrosiche delle interlinee articolari del mesopiede con possibili alterazioni del profilo dorsale del piede.

L’ARCO ESTERNO

Comprende i seguenti segmenti ossei:

  • il 5° metatarso (la testa costituisce l’appoggio anteriore);
  • il cuboide (sospeso);
  • il calcagno (appoggio posteriore).

La caratteristica saliente dell’arco esterno è la sua particolare rigidità, dovuta alla struttura legamentosa rappresentata in particolare dal:
-grande legamento calcaneo-cuboideo planatre.

I muscoli che sono attivi nei confronti di questo arco sono tre:

  • il peroneo breve
  • il peroneo lungo
  • l’adduttore del 5° dito.
  • Essi esaltano la curvatura dell’arco esterno.

Diminuiscono invece la sua curvatura:

  • il peroneo anteriore
  • l’estensore comune delle dita (in certe condizioni).

Esiti più frequenti e infortuni relativi all’arco esterno:
1) fratture da stress alla base del 5° metatarso dove si inserisce il peroneo breve;
2) tenosinoviti dei tendini peronei;
3) questo arco è quello più esposto a trauma diretto nelle cadute a piedi pari. Si può infatti avere un distacco della grande apofisi del calcagno, chiave di volta dell’arco.

L’ARCO ANTERIORE

Si sviluppa dalla testa del 1° metatarso, che appoggia sui due sesamoidi, alla testa del 5° metatarso.
Più precisamente, questo arco passa per la testa di tutti i metatarsi. La seconda testa si posiziona più in alto delle altre (9 mm ) e forma la chiave di volta.
Questa arcata è sostenuta dai legamenti intermetatarsali e da un solo muscolo, il fascio trasverso dell’abduttore dell’alluce.
Cause più frequenti di patologie legate a un’alterata struttura dell’arco anteriore:

  1. un abbassamento dell’arco anteriore può provocare quella sintomatologia detta comunemente metatarsalgia;
  2. piede di Morton. E’ un piede particolare con una limitazione anatomica congenita dovuta ad un 2° dito che è eccessivamente lungo rispetto all’alluce. La distribuzione dei punti di carico sull’arco anteriore è alterata perché la chiave di volta dell’arco trasverso viene ad essere dislocata troppo in avanti e diventa quindi un punto di eccessivo carico: con facilità l’arco anteriore si abbassa. Inoltre questa particolare conformazione del piede favorisce una pronazione più evidente nella fase di appoggio con le relative conseguenze negative.

DUE PIEDI DIVERSI

I due piedi non rappresentano sempre immagini anatomiche speculari, anzi, frequentemente la loro asimmetria nel lavoro che devono compiere è la protagonista di problematiche che sfociano nella patologia. Possiamo quindi avere un piede che compie un movimento di pronazione eccessivo intraruotato, un piede normale e l’altro piatto e così via. Queste alterazioni, anche quando non sono particolarmente evidenti, possono costruire fattori significativi nell’innescare patologie legate ad attività sportive.
Questa considerazione vuole anche sottolineare l’importanza di specificità quando vengono elaborati presidi ortesici come i plantari. Quello che può andare bene per un piede non va bene per l’altro ed è possibile una disparità corrrettiva non indifferente.
Al di là delle qualità anatomo-biomeccaniche che lo caratterizzano, anche la lunghezza di un piede può essere differente da quella del controlaterale.
Queste diversità suggeriscono alcune considerazioni.
La prima riguarda il fatto che, funzionalmente, il piede più lungo (di un centimetro ad esempio) fa diventare, durante un’attività sportiva come la corsa, anche l’arto inferiore più lungo.
Possiamo allora parlare di dismetria dinamica o funzionale: in tali situazioni un parziale compenso è ipotizzabile solo a livello muscolare. E’ quindi opportuno che il piede più corto diventi più forte da un punto di vista muscolare.
La costante applicazione in una adeguata ginnastica di potenziamento selettivo diventa allora un momento indispensabile dell’allenamento, ma può capitare che questo compenso muscolare si acquisisca già naturalmente: è comunque possibile valutare la forza dei due arti inferiori con esercizi molto semplici, tipo dei balzi eseguiti su di una sola gamba. Cinque ad esempio possono già fornire indicazioni interessanti.
Le due distanze raggiunte e confrontate possono dare un’idea della forza espressa dal singolo arto.
Ricordiamo che spesso un piede più corto del controlaterale può anche essere associato ad un arto più corto (classiche sono talune forme di poliomielite contratte in forma leggera e spesso misconosciute).
In tali casi l’intervento deve essere fatto sia a livello di compenso della dismetria, sia a livello della muscolatura da ipertrofizzare.
La seconda considerazione riguarda la scelta della misura della calzatura. E’ logico fare riferimento sempre al piede più lungo nella classica prova della calzata. Per quello più corto è possibile compensare parzialmente l’eccesso di spazio a disposizione con un’allacciatura più stretta o con l’inserimento di una soletta aggiuntiva.
Accennavo, all’inizio di queste righe, all’extrarotazione del piede. E’ un difetto frequente che dipende, il più delle volte, da una mancata derotazione dell’anca nello sviluppo del soggetto (primi anni di vita) e può essere presente mono o bilateralmente. Il medesimo difetto è apprezzabile in esiti di fratture consolidate in leggera extrarotazione. Il tipo di appoggop conseguente può esaltare ed amplificare difetti già esistenti.
un eccesso del movimento di pronazione, ad esempio, può avere degli effetti molto negativi in chi già extraruota l’arto inferiore e quindi il piede.
In questa circostanza abbiamo un particolare stress della fascia plantare e del tendine di Achille, che vengono oltremodo sollecitati. Al di là di questa considerazione, dobbiamo ricordare che un appoggio in extrarotazione è fonte di dispersione di forza, e quindi, di energia deputata alla propulsione. Per ovviare a tale inconveniente risulta molto pericoloso cercare di autocorreggere l’appoggio intraruotando forzatamente il piede: l’unica possibilità rimane quella di togliere gli effetti negativi dello stress sulle parti legamentose e tendinee con un’ortesi plantare studiata appositamente per il caso specifico.

LA FUNZIONE DEL PIEDE NELLA CORSA

Cercando di analizzare il piede mentre svolge le sue funzioni, si osserva che due di queste sono fondamentali nell’evoluzione del gesto motorio: la prima è quella di adeguarsi alla superficie sulla quale camminiamo o corriamo in modo da assorbire l’impatto con il terreno, l’altra è di sostenere il peso del corpo e fare maniera che questo proceda.
Quando un piede normale tocca il suolo, il primo contatto avviene con la parte esterna del calcagno, poi l’arco plantare ruota in dentro ed in giù così da abbassarsi un poco. Tale successione di movimenti è detta pronazione: questa permette al piede di essere sciolto e mobile allo scopo di ben adattarsi al suolo ed assorbire l’urto nelle migliori condizioni.
Questa sequenza di movimenti è detta supinazione.
nell’esecuzione di questi movimenti, le articolazioni ed i muscoli degli arti inferiori, dalle caviglie ai fianchi, compiono una caratteristica sequenza di movimenti, la cui successione temporale è estremamente importante.
Se il piede va dalla pronazione alla supinazione in maniera armoniosa ed a tempo, non si verifica alcuno sforzo o perdita di efficacia nel movimento; se invece c’è un’eccessiva pronazione, viene alterata la sequenza temporale.
Incubo di tanti divoratori di chilometri, la pronazione è un termine spesso strumentalizzato per diversi scopi: non ultimo quello di vendere calzature.
La pronazione non è altro che un movimento naturale che il piede compie durante lo svolgimento del passo: è bene che tale movimento avvenga in quanto esso rende l’appoggio del piede meno traumatico.
Tramite questo movimento, inoltre, i muscoli della loggia posteriore della gamba, in particolare il tricipite della sura, si caricano come una molla e proiettano il corpo in avanti.
Ritorniamo un attimo indietro e cerchiamo di capire come avviene un appoggio nella sua evoluzione dinamica.

Possiamo distinguere tre fasi salienti:

  • fase di contatto
  • la fase nediana dell’appoggio
  • la fase propulsiva.

La fase di contatto può avvenire con diverse inclinazioni del calcagno rispetto all’asse orizzontale di appoggio.
Statisticamente avviene prevalentemente in leggera inversione. A questo punto vorremmo aprire un inciso perché i termini inversione ed eversione sono spesso erroneamente confusi con pronazione e supinazione. Inversione ed eversione descrivono delle posizioni statiche del piede, in particolare del calcagno; pronazione e supinazione, invece, descrivono un susseguirsi di momenti che compongono, in ultima analisi, un movimento. Non si deve allora dire che il contatto del piede con il suolo può avvenire in supinazione, ma in inversione. Dati questi presupposti ritorniamo alla descrizione del gesto motorio.
La fase di contatto, che può risultare peraltro corretta anche quando avviene in posizione neutrale (cioè né in inversione, né in eversione), deve essere preferibilmente antitraumatica. Da qui l’importanza di una calzatura che assorba l’urto nella maniera migliore e soprattutto non modifichi nel tempo le caratteristiche elastiche di deformabilità del materiale dell’intersuola.
Dopo il contatto si ha la fase mediana dell’appoggio allorquando il piede ruota verso l’interno, aumenta la superficie di appoggio e compie il movimento di pronazione. Se si verifica un eccesso nell’escursione del movimento, cosa che può essere dovuta a cause di tipo anatomico e funzionale, abbiamo una compromissione nella distribuzione dei carichi nel momento in cui il piede deve sopportare tutto il peso del corpo più la forza derivante dall’energia cinetica.
Inoltre, un eccesso di pronazione comporta una alterazione dell’assetto del piede nella fase succesiva, quella di spinta o meglio la fase propulsiva. La fase propulsiva è bene che non cominci con il piede in eccessiva eversione, conseguente ad una pronazione troppo pronunciata: in questo caso il tendine d’Achille si troverebbe a svolgere il suo lavoro di trasmissione fuori dall’asse; in particolare la trazione esercitata sul calcagno sarebbe dismogenea con conseguenze spesso spiacevoli per l’integrità del tendine stesso. Questa è la causa di molti infortuni da eccesso di stress e spiega perché le persone che pronano eccessivamente possono avere le loro prestazioni alterate negativamente. In questa situazione i muscoli designati a stabilizzare l’appoggio sono chiamati ad aiutare la propulsione e i muscoli propulsori sono costretti ad aiutare la stabilizzazione; quando, come in questo caso, i vari gruppi muscolari degli arti inferiori sono chiamati a svolgere un lavoro per cui essi non sono stati concepiti, avremo fenomeni di sovraccarico ed i livelli dei risultati subiranno una flessione. Un altro problema che comporta la eccessiva pronazione vede protagonista il peso del corpo: se questo agisce sul piede in un momento in cui quest’ultimo è instabile, le ossa sono allora soggette a forze anormali che possono portare a fratture da stress, formazioni speroneali dell’osso, esostosi, danni articolari,borsiti e artrosi.
Poi ci sono i muscoli che, costretti a svolgere un lavoro sbagliato,possono danneggiarsi e coinvolgere pure le strutture tendinee. In alcuni casi stress eccessivi sono trasmessi dagli arti alla schiena, i cui dolori sono assai frequenti tra gli sportivi.
Vediamo di riproporre ancora,in dieci puni, i concetti fondamentali che regolano la meccanica di appoggio del piede durante la corsa.

  1. Pronazione e supinazione sono due movimenti che avvengono in momenti diversi del gesto della corsa.
  2. E’ normale che il tallone prenda contatto con il suolo nella parte prevalentemente esterna; poi inizia il movimento di pronazione: abbiamo una rotazione verso l’interno, il piede si carica di energia, come se al suo interno ci fosse una molla, e solo allora, con la contrazione del muscolo tricipite della sura, comincia il movimento di supinazione, che si completa con la propulsione in avanti del corpo (e il “rilascio” della molla).
    Riassumendo e schematizzando:
    – pronazione: fase di ammortizzazione e controllo;
    – supinazione: fase di spinta e propulsione in avanti.
  3. La patologia del piede e lo stress da sovraccarico funzionale interessano al 90% il movimento di pronazione.
  4. Il movimento di pronazione può essere ai due limiti estremi:
    – scarso (insufficiente movimento di pronazione);
    – esagerato (eccesso di pronazione).
  5. Quando il movimento è scarso:
    – aumenta l’effetto traumatico e diminuisce la “ corsa dell’ammortizzatore”.
    Quando il movimento è eccessivo:
    – aumenta lo stress della parte legamentosa e articolare.
  6. In caso di scarsa pronazione queste sono le patologie associate più frequenti:
    – tendinopatie inserzionali dell’achilleo ( dolore all’inserzione del tendine: può essere associata ad una borsite) ;
    – metatarsalgie ( algia nella parte anteriore del piede, là dove cominciano le dita) perché la distrubazione del carico, anteriormente, non è omogenea;
    – neuralgia di Morton ( dolore acuto più frequentemente tra il 3° e il 4° metatarso).
    Nel caso di eccesso di pronazione queste sono le patologie più frequenti:
    – peritendinite, tendinite del tendine di Achille ( dolore un poco più in alto dell’inserzione del tendine, che può diminuire dopo qualche minuto di corsa);
    – periostite tibiale ( algia sulla parte anteriore della tibia );
    – sindrome della bendelletta ileo-tibiale (dolore in corrispondenza della parte laterale del ginocchio) da eccessiva intrarotazione della tibia;
  7. Il consumo della calzatura nella parte latero-posteriore della suola non è significativo: è soltanto una testimonianza della posizione in inversione del piede, nella fase aerea, e di come esso prende contatto con il suolo: ovviamente nei casi di ginocchio varo questa tendenza è più marcata.
  8. Il consumo della battistrada della calzatura nella porzione centrale e anteriore è significativo del tipo di appoggio: in un appoggio normale è tendenzialmente uniforme.
  9. Un appoggio accompagnato da una extrarotazione del piede amplifica gli effetti negativi di un eccesso di pronazione.
  10. 10) L’esame dinamico del gesto motorio può fornire delle indicazioni che vanno valutate nel contesto di equilibri e compensi dell’intera catena cinetica dell’arto inferiore.

 

Quasi tutti hanno minime imperfezioni nei movimenti del piede: se queste rientrano in un complesso fatto di sottili autocompensi possono, a tutti gli effetti, non inficiare le capacità prestative e funzionali del singolo; quando l’alterazione è significativa l’esercizio sistematico e la pratica sportiva possono costituire un trampolino di lancio verso forme infiammatorie che è opportuno conoscere e per le quali è bene adottare validi rimedi.

Vediamo di riassumerli.
Quando vi è una richiesta di lavoro superiore alla possibilità del muscolo: intossicato dalla fatica, non riesce a rispondere a degli impulsi nervosi proponenti un’ ulteriore prestazione. Alla base di una sofferenza muscolare può anche sussistere una non perfetta trasmissione dell’impulso nervoso per cause di tipo radicolare oppure una piccola lesione tendinea misconosciuta od un processo tendinosico in atto.
Va comunque sottolineato che, da un punto di vista statistico, è più frequente sia un muscolo sofferente e contratto a creare problemi tendinei che il contrario.
Quando il muscolo si trova impegnato in un lavoro di tipo massimale, una ulteriore richiesta di forza, superiore a quella che il muscolo può esprimere in quel momento, porta ad un tentativo di contrazione muscolare che però viene vanificato.
Se l contrazione persiste oltre un certo limite si può andare incontro ad un lesione muscolare, mentre l porzione tendinea è generalmente risparmiata.
Nel caso invece, di un muscolo potente ed ipertrofico (quale quello di un atleta allenato)che può esprimere grande potenza, quando la forza applicata è superiore al massimale, può essere il tendine a subire la lesione.
Questo fatto è verosimile perché se il muscolo,ipertrofizzanosi, acquista forza e maggiore resistenza alla trazione, il tendine ha invece delle modestissime capacità di adattamento per cui risulta, nel complesso la parte più vulnerabile.
Riguardo alle situazioni di fatica muscolare si possono fare due considerazioni: l prima è che quando il muscolo è in acidosi la qualità della contrazione muscolare decide di molto, per cui il richiedere velocità nell’esecuzione del gesto diventa un fattore di rischio per le fibre; la seconda è che con il declino della prestazione muscolare i è anche un peggioramento biomeccanico nell’esecuzione del gesto.
Questo avviene perché la muscolatura esercita una grande opera di controllo sulla funzionalità biomeccanica articolare, soprattutto in quegli atleti che hanno reali limiti in tal senso. Nel momento in cui l’opera di controllo dei muscoli viene meno, è la struttura tendiena ad essere la più esposta d un sovraccarico funzionale.

Per quanto riguarda la bontà della trasmissione dell’impulso nervoso, là dove vi sia una sofferenza radicolare, ossia dalla radice del tronco nervoso che va ad innervare una porzione muscolare, vi possono essere problemi di contrazione, in particolare quelle veloci.
Casi di questo tipo si hanno, ad esempio, nelle forme di lombosciatalgia cronica o subacuta,che permettono di svolgere un’attività coe la corsa sebbene la trasmissione dell’impulso nervoso possa essere leggermente alterata. In tali casi si può aver un non perfetto sincronismo tra la funzione degli agonisti e degli antagonisti, per cui si possono verificare situazioni di stiramento o elongazione muscolare.

L’ultima considerazione riguarda il rapporto diretto tra infortuni muscolari e problemi tendinei.
Quando un tendine subisce lesioni parziali o microlesioni, i processi riparativi che seguono creano una rigidità che può ripercuotersi negativamente sul muscolo.
E’ intuitivo, quindi, che dopo aver subito un processo riparativo il tendine necessita di una fase di rieducazione graduale allo stiramento e, soprattutto nel primo periodo, il muscolo deve essere fornito di un’ottima elasticità per compensare quella scarsa del tendine.

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